La Morte da Samarra a Samarcanda
di Lucius Etruscus
Una storia antica ma che ha lasciato tracce di sé solo da pochissimo tempo: un
racconto morale di cui tutti sono sicuri della provenienza ma in realtà nessuno
si è reso conto che è “nato” a due passi da casa nostra
La storia la conosciamo tutti. Un uomo vede la Morte che lo osserva con occhi
cattivi e chiede un cavallo veloce per sfuggirle. Cavalca tutta la notte per
arrivare in un’altra città, solo per scoprire che la Nera Signora era proprio lì
che lo aspettava. È una storia molto nota e tutti hanno convinzioni abbastanza
precise sulla sua provenienza: discende probabilmente da una fiaba persiana, o
forse araba, comunque mediorientale. Chi la cita ha la mente piena di
lussureggianti e antiche mille e una notte, e addirittura uno storico di grande
fama come Franco Cardini cede le armi davanti a questa storia e si fa vago e
approssimativo, lui che è preciso e minuzioso nel citare le fonti di qualsiasi
cosa dica. La verità è che tutti hanno sentito questo racconto citato da un
occidentale, non da un mediorientale, e con il tempo i mediorientali stessi
hanno finito per citare gli occidentali: e se il mistero di questo racconto
fosse che le sue origini moderne sono molto più europee e attuali di quanto
pensassimo?
Diamo subito ragione al pensiero comune, che non sa neanche di aver ragione.
(Chi dice che la storia è mediorientale, cioè, lo afferma per sentito dire, non
perché lo sappia davvero.) Il Talmud (“Insegnamento”) è uno dei testi sacri
dell’ebraismo ed è conosciuto in due versioni: quello di Gerusalemme e quello
babilonese, molto più lungo e redatto fra il V e il VI secolo d.C. ma contenente
testi tramandati in forma orale sin da molti secoli prima. La 53ª sukkah del
Talmud Babilonese è una parabola che racconta di come un giorno Re Salomone si
accorse che l’Angelo della Morte era triste. «Perché sei così triste?» gli
chiese. «Perché mi hanno ordinato di prendere quei due Etiopi», risponde
l’Angelo della Morte, riferendosi a Elihoreph ed Ahyah, i due scribi etiopi di
Salomone. Il Re volle salvare i suoi preziosi uomini e li fece scappare fino
alla città di Luz, ma appena giunti qui i due scribi morirono. Il giorno
seguente Salomone incontrò di nuovo l’Angelo della Morte e vide che sorrideva.
«Perché sei così felice?» gli chiese. «Hai mandato i due etiopi proprio nel
posto in cui li aspettavo.» rispose la Morte.
Frontespizio dal Talmud Babilonese
Al che Salomone espresse la morale della parabola: «I piedi di un uomo sono
responsabili per lui: essi lo portano nel luogo dove egli è atteso.» (Suona
strana come morale, visto che in realtà i due poveri scribi vennero mandati da
Salomone a morire, non dai loro piedi!) Quindi ha ragione il comune pensare: la
storia della fuga inutile dalla Morte ha radici mediorientali. Ma è per puro
caso, perché nessuno — neanche i più dotti saggisti — cita il Talmud Babilonese,
bensì getta là una vaghissima “origine mediorientale”. Quello che nessun europeo
ha mai notato, in realtà, è che la storia come noi la conosciamo è nata in
Europa all’inizio del XX secolo.
Giovanni Invitto nel suo L’occhio tecnologico (2005) afferma che la storia è
arrivata in Europa grazie ad Edward Fitzgerald, poeta inglese nonché celeberrimo
traduttore delle Quartine di Omar Khayyām: con un’astuzia lessicale l’autore
evita di specificare se la storia fosse farina del sacco di Fitzgerald o
derivante da Khayyām, o se ancora fosse stata inventata da Fitzgerald “ispirato”
da Khayyām. Dispiace sottolineare come l’ottimo storico sopra citato, Franco
Cardini, adotti lo stesso identico espediente quando parla della storia in
questione nel suo romanzo Il Signore della paura (2007): «una leggenda che io
avevo incontrato adolescente — leggendo qualcosa sulla traduzione che Edward
Fitzgerald aveva dedicato al grande poeta persiano Omar Khayyām». Anche qui non
è chiaro: la “leggenda” l’ha inventata Fitzgerald in un testo “dedicato” a
Khayyām o traducendo un testo del celebre poeta persiano, a cui andrebbe quindi
la paternità? Visto che Khayyām non fa parola di questo “qualcosa” che Cardini
ha letto, a cui neanche Fitzgerald sembra far menzione, non rimane che
proseguire oltre nella citazione cardiniana: «Mi sembra di ricordare che la
leggenda della “morte a Samarcanda”, di evidente origine persiana, passata forse
attraverso la cultura russa, sia approdata al romanzo di John O’Hara...» Perché
“sembrare di ricordarsi” qualcosa che è noto a livello internazionale? E perché
un grande storico “sembra di ricordarsi”? Non aveva tempo per controllare? Che
voglia evitare di dire esplicitamente che non sono chiare le origini della
storia? Mettere in discussione la parola di Franco Cardini esula dalle nostre
competenze: ci limitiamo a far notare quanto tutto il discorso sia pencolante,
privo di fonti (in un testo che invece ne gronda abbondantemente!) e inciampi
proprio sull’ostacolo più evidente. Il nome di Samarcanda l’ha pronunciato per
la prima volta Oriana Fallaci negli anni Sessanta... altro che persiani e russi!
Ma andiamo con ordine.
John O’Hara, diceva il buon Cardini.
Tutti gli autori anglofoni e anglofili sanno che Appuntamento a Samarra (1934)
di John O’Hara deve il suo titolo ad una storia raccontata al suo interno, del
tutto slegata dal resto del romanzo. Come spiega O’Hara stesso nell’introduzione
all’edizione del 1952, originariamente il suo romanzo aveva per titolo The
Infernal Grove (“Il bosco infernale”), ma quando la poetessa Dorothy Parker gli
mostrò il lavoro teatrale Sheppey di W. Somerset Maugham l’autore ne fu colpito:
non solo volle aggiungerne un brano come citazione iniziale del libro, ma fece
di tutto per cambiare il titolo del romanzo stesso in Appointment in Samarra.
Non aveva alcuna attinenza con gli eventi narrati, se non (nelle intenzioni di
O’Hara) sottolineare l’inevitabilità della morte del protagonista. Né a Dorothy
Parker, né agli editori né a nessun altro piacque quel titolo, ma O’Hara si
impuntò e l’ebbe vinta. I più attenti avranno notato che dunque O’Hara non ha
inventato la storia, ma l’ha solo citata perché se ne è invaghito. Il Tempo poi
gli ha dato ragione, ma in modo beffardo: il grande successo del suo libro in
realtà è dovuto solo alla citazione iniziale, che non è una sua creazione. Nel
2007 il celebre regista Brian De Palma, contagiato dalla storia, girò il film
Redacted intorno al racconto della Morte inevitabile. La pellicola è ambientata
proprio vicino alla vera Samarra, in Iraq, dove alcuni soldati gestiscono un
posto di blocco. Uno dei protagonisti racconta alla telecamera di star leggendo
Appuntamento a Samarra di O’Hara, ma attenzione: non racconta una sola virgola
della storia del libro, ma solo la citazione di Maugham! Si sarà reso conto il
povero O’Hara che deve la fama ad una citazione non sua? Forse hanno fatto
bene gli altri a non svelare mai le proprie fonti...
Ma insomma, cosa dice Maugham nella sua pièce teatrale del 1933 di così bello da
contagiare tanto O’Hara quanto De Palma quanto un gran numero di americani?
Sheppey di Maugham finisce con la Morte che va a prendere il protagonista, il
quale si rimprovera di non essere fuggito nell’Isola di Sheppey, dove
sicuramente la Morte non sarebbe arrivata a prenderlo. Al che la Morte lo
illumina con una storia: «C’era a Baghdad un mercante che mandò il suo servo al
mercato per far provviste. E il servo ritornò ben presto, pallido e tremante, e
disse: “Padrone, poco fa, mentre ero al mercato, fui urtato da una donna nella
folla, e quando mi volsi mi accorsi che era stata la Morte a urtarmi. Mi guardò
e fece un gesto minaccioso. Te ne supplico, prestami il tuo cavallo ed io
abbandonerò questa città per sfuggire al mio destino. E andrò a Samarra, dove la
Morte non potrà trovarmi”. Il mercante gli prestò il suo cavallo, e il servo
montò in sella e, spronando a sangue l’animale, partì al galoppo. Allora il
mercante si recò alla piazza del mercato e mi scorse tra la folla. “Perché hai
fatto un gesto minaccioso al mio servo, stamane?” mi chiese, avvicinandosi. “Il
mio gesto non era di minaccia, bensì di sorpresa”, risposi. “Fui stupita di
vederlo a Baghdad poiché avevo un appuntamento con lui questa notte a Samarra”.»
Che sia di Maugham o di O’Hara, il fatto rimane: Samarra per gli anglofoni è il
simbolo della Morte inevitabile, un appuntamento a cui non ci si può sottrarre.
Quando nel 2002 venne girato negli USA il remake del successo giapponese The
Ring, si cambiò il nome dell’infernale Sadako... e si scelse Samara. Che sia un
richiamo alla Morte inevitabile che il personaggio porta? In conclusione, la
storia è antica ma in Europa è arrivata grazie al britannico Maugham e negli USA
grazie a O’Hara, giusto? Neanche per s ogno: malgrado tutti gli europei lo
ignorino, malgrado addirittura i francesi lo ignorino, la storia è nata dieci
anni prima... in Francia... e questa natalità l’ha scoperta un non-europeo!
Jean Cocteau
Checché ne dicano tutti, prove alla mano si può affermare che la storia della
Morte inevitabile, così come noi la conosciamo, se l’è inventata Jean Cocteau
per il suo romanzo La spaccata (Le grand écart, 1923), che dopo quasi cent’anni
di silenzio è stato portato in Italia recentemente da Castelvecchi. «Crediamo di
scegliere e non abbiamo scelta. Un giovane giardiniere persiano disse al suo
principe: “Stamattina ho incontrato la morte. Mi ha fatto un gesto di minaccia.
Mi salvi. Vorrei che un miracolo mi facesse essere a Ispahan, stasera”. Il buon
principe gli presta i suoi cavalli. Nel pomeriggio, il principe incontra la
morte. “Perché”, le chiede, “stamattina hai fatto un gesto di minaccia al mio
giardiniere?” “Non era un gesto di minaccia”, rispose, “ma di sorpresa, perché
avevo visto che stamattina era così l ontano da Ispahan, ed è a Ispahan che devo
prenderlo stasera”.» Il Gesto della Morte è un tema che colpì la fantasia di
Jorge Luis Borges, che dal 1953 in ben due antologie (prima Racconti brevi e
straordinari, poi Antologia della letteratura fantastica) riportò fedelmente le
parole di Cocteau: com’è che nessun europeo se n’è accorto e ancora oggi anche i
francesi ignorano Cocteau? Com’è che a notarlo è stato uno di Buenos Aires? Sarà
che gli europei continuano sempre a citare O’Hara o un ignoto mediorientale...
Comunque, dove l’ha presa Cocteau? Dal Talmud Babilonese o l’ha sentita
raccontare da un qualche mediorientale? L’ha inventata, ignaro della versione
talmudica? Purtroppo non lo sappiamo. John O’Hara è finora il primo ad aver
ammesso di aver preso la storia da altre fonti: visto che il suo libro viene
ricordato esclusivamente per quella storia (che non ne fa neanche parte), forse
non gli è convenuto. Forse il povero O’Hara doveva fare come l’olandese Pieter
Nicolaas van Eyck che, all’interno della sua raccolta Herwaarts (“Da questa
parte”, 1939), presenta la poesia De tuinman en de dood (“Il giardiniere e la
morte”) senza stare a scomodarsi a citarne la fonte.
Pieter Nicolaas van Eyck
Parla un nobile persiano: «Vidi stamani accorrere, pallido di sgomento, / Il
giardinier gridando: “Signore mio, un momento! // Potavo nel roseto le gemme
troppo corte, / Quando alle spalle ho guardato. Lì stava la Morte. //
Terrorizzato fuggo all’altro capo, lontano, / Ma anche qui la minaccia vedo
della sua mano. // Col vostro cavallo, Signore, lasciatemi scappare / Ed entro
stasera a Isfahan potrò arrivare!” // Nel pomeriggio (da ore già se n’è andato)
/ Nel parco dei cedri la Morte ho incontrato. // “Perché?” le chiedo, ché lei
aspetta e tace, / “Il mio uomo hai impaurito, togliendogli pace?” // Sorridendo,
risponde: “Ben più del suo timore, / Grandissimo è stato il mio stupore, // Nel
veder qui stamani all’opra ancora attendere / Colui che stasera a Isfahan dovevo
prendere”.» (Stupenda traduzione in versi di Elisabetta Svaluto Moreolo,
Iperborea 2003.) Il critico olandese Herman Franke ha avuto un guizzo di
intuizione quando ha notato che è palesemente un plagio da Cocteau (il
giardiniere, Isfahan, il gesto della morte), ma poi si è lasciato andare
all’intercalare usato da tutti: si rifà comunque ad una leggenda araba. Quale
leggenda, scritta dove, attestata da chi, non è dato sapere. (La poesia di van
Eyck è stata anche messa in musica dal compositore ucraino Sergeij Zhukov per il
suo De tuinman en de dood, scene for contralto).
È il momento di tirare le somme. Ispirato o forse no dal Talmud Babilonese, nel
1923 Cocteau scrive per la prima volta la storia della Morte inevitabile. Nel
1933 Maugham la riporta quasi identica senza citare la fonte. Nel 1934
dall’altra parte dell’Atlantico O’Hara la riporta identica, citando la fonte.
Nel 1939 van Eyck mette in versi la storia di Cocteau senza citare la fonte. Fin
qui tutto bene... un momento: e Samarcanda? Abbiamo sentito parlare di Luz,
Isfahan e Samarra... che c’entra Samarcanda? Dopo più di vent’anni del povero
Cocteau si perde la memoria: la sua Isfahan, il gesto della morte e il povero
giardiniere (figura molto presente nelle leggende arabe documentate da far
davvero pensare ad un’ispirazione anteriore) svaniscono nel nulla.
Così Oriana Fallaci ha campo libero!
Nel 1965 nel suo Se il sole muore la celebre scrittrice racconta: «Pensai
piuttosto a quell’atroce racconto persiano dal titolo Appuntamento a Samarcanda.
Nel giardino del re, la Morte appare a un servo. “Domani”, gli dice “ti vengo a
prendere...” Allora il servo corre dal re e gli chiede il cavallo più veloce,
per fuggire lontano: a Samarcanda. Arriva a Samarcanda, l’indomani, e la Morte è
lì che lo aspetta. “Non è giusto”, grida il servo “non è leale”. “Perché?”
risponde la Morte. “Sei fuggito senza farmi finire il discorso. Io ero in
giardino per dire: domani ti vengo a prendere a Samarcanda”.» Il racconto è
uguale ma diverso. La Morte per la prima volta parla al diretto interessato, non
al principe: si rivolge al servo e quasi si giustifica. Non ci è dato sapere a
quale “racconto persiano” si faccia riferimento, ma sappiamo che ora è nata una
nuova città: dopo Luz, Isfahan e Samarra ecco Samarcanda. Nel 1979 la Fallaci
riprende in forma più ampia e particolareggiata la storia nel libro Un uomo:
gliela racconta Sua Maestà chiamandola “La leggenda di Samarcanda”. Viene
aggiunto un particolare non da poco: il servo si trova ad Isfahan (città
d’arrivo nella versione originale di Cocteau ) e fugge a Samarcanda, dove
l’aspetta la Morte. Davvero un bel mix. Quest’ultima citazione però non ha alcun
peso, ormai: nel 1977 la nostra storia infatti ha cominciato il suo
contagio... musicale!
«Io notai questa bellissima favola orientale sul frontespizio di un libro, che
era Appuntamento a Samarra di John O’Hara. Però il raccontino era citato da
Somerset Maugham, che è uno scrittore anglosassone, e mi piacque moltissimo
perché era un modello di cultura poi tra l’altro non soltanto orientale: era di
tutto il mondo.» Così racconta Roberto Vecchioni al giornalista Vincenzo
Mollica, nella video-intervista Parole e Canzoni (2002), la nascita della
canzone Samarcanda. Va apprezzato l’incredibile gioco sofistico per cui
Vecchioni cita i principali autori della storia senza mai specificare
chiaramente il loro rapporto con essa. L’ha letto sul libro di O’Hara ma il
“raccontino” era citato da Maugham: ma era O’Hara che citava Maugham, non il
contrario. E poi è una leggenda “non soltanto orientale”: come a dire dovrebbe
essere orientale ma non ne sono così sicuro da affermarlo chiaramente.
Insomma, al di là della vaghezza delle sue origini e del fatto che Vecchioni non
citi minimamente Oriana Fallaci — che è l’unica prima di lui ad usare Samarcanda
al posto di Samarra o Isfahan — accompagnato al violino da Angelo Branduardi
crea uno dei più grandi tormenton i della musica italiana. Il testo ci racconta
che, alla fine di una non meglio specificata guerra, un soldato sta festeggiando
quando si accorge di una «nera signora che lo guardava con malignità». Intuito
che si tratta della Morte, chiede al suo sovrano di farlo fuggire il più lontano
possibile, e questi gli concede un cavallo velocissimo che lo porterà in poco
tempo a Samarcanda. Ma arrivato in questa città, incontra di nuovo la Nera
Signora. «Sbagli soldato — gli dice la Morte — io non ti guardavo con malignità.
/ Era solamente uno sguardo stupito: / cosa ci facevi l’altro ieri là? // T’
aspettavo qui per oggi a Samarcanda, / eri lontanissimo due giorni fa. // Ho
temuto che per ascoltar la banda / non facessi in tempo ad arrivare qua.» Il
soldato, cercando di sfuggire alla Morte, in realtà gli andò incontro. «Non era
nata come canzone di successo — racconta Vecchioni nella citata intervista, —
anzi con un motivo tragico: era nata sulla morte di mio padre, che sembrava
essersi salvato poi improvvisamente un giorno purtroppo se n’è andato. Il
destino è beffardo, crudele come sappiamo, “cinico e baro”: ti promette una cosa
e poi non la mantiene.» Perché però dire di essersi rifatti a Maugham quando
poi non si usa la sua Samarra bensì Samarcanda?
Qualunque sia il motivo, sin dagli anni Ottanta la situazione è questa: sebbene
tutti affermino trattarsi di leggenda mediorientale, tutto il mondo anglofono
usa Samarra e tutti gli italiani usano Samarcanda, senza che apparentemente gli
uni conoscano il modo di dire degli altri.
Così quando nel 1990 viene edito in Italia Ricordi di mezzanotte (Memories of
Midnight) di Sidney Sheldon, e il traduttore si trova davanti un riferimento a
Samarra, cosa fa? Semplice: lo fa diventare Samarcanda... «Hai mai letto
Appuntamento a Samarcanda, Catherine? No? Peccato, ormai è troppo tardi. Parla
di un uomo che cercava di sfuggire alla morte. Si rifugiò a Samarcanda e la
morte era lì che lo aspettava. Questa è la tua Samarcanda, Catherine.» Questo
dialogo fra un assassino e la sua vittima in lingua originale riporta Samarra:
non solo, sin dalla prima uscita italiana il titolo di O’Hara usava Samarra,
perché cambiarlo nella citazione di Sheldon? Visto questo importante precedente,
come facciamo ad essere sicuri che i successivi riferimenti a Samarra, in
romanzi di lingua straniera, non siano stati anch’essi modificati? Probabilmente
lo sono stati tutti... «La Morte come un angelo, la Morte che dava appuntamento
a Samarcanda» Robert Bloch, La mietitrice (Reaper, 1986). «Conosce il racconto
orientale Appuntamento a Samarcanda?» Gérard de Villiers, SAS Vendetta a Beirut
(Vengeance à Beyrouth, 1993) «La storia degli ultimi giorni di Mozart è entrata
nella leggenda: un ignoto messaggero recapita una convocazione dall’aldilà per
preparare un eroe predestinato a un appuntamento a Samarcanda.» Maynard Solomon,
Mozart (Mozart. A Life, 1995). «Andiamo, bellezza. Ho un appuntamento a
Samarcanda, o qualcosa del genere.» James Patterson, A Jennifer con amore (Sam’s
Letters to Jennifer, 2004). Tutti questi esempi, e tanti altri ancora, usano un
termine prettamente italiano e quindi sono a forte rischio di manomissione in
fase di traduzione. Per amor di verità vanno citate anche le eccezioni. «Chi ha
un appuntamento a Samarra non si dirigerà invece verso Newark.» Ed McBain, Una
città contro (Downtown, 1989). «Qualcosa sul destino, gli pareva, e su certi
appuntamenti in Samarra.» Stephen King, Insomnia (1994). Ultima eccezione è
quella di Jean Baudrillard, filosofo francese che nel suo La seduzione o Della
seduzione (De la séduction, 1979) racconta la nostra storia usando però
l’accezione Samarcanda: che fosse stato contagiato dal successo della canzone di
Vecchioni di due anni prima? Curiosamente Baudrillard specifica in nota: «Il
tema era ripreso da un racconto irlandese, Appointment in Samarcanda, di John
O’Hara, che si rifaceva ad una vecchia leggenda olandese e, questa, a sua volta,
ad una leggenda orientale». Leggenda olandese? E questa da dove esce fuori?
Probabilmente pensava alla poesia di van Eyck.
Sono tantissime le citazioni e i rifacimenti del “Gesto della Morte” o
dell’“Appuntamento a Samarra” o ancora del “ Cavallo di Samarcanda”, come la
chiama Luigi Baldascini nel suo Vita da adolescenti (1993). Il poeta iracheno
Fadhil al-Azzawi nel 1975 raccoglie nell’antologia The Eastern Tree la poesia
“An Appointment in Samarra”, in cui il servo riesce a sfuggire alla Morte
rifugiandosi in una città in cui nessuno lo conosce e in cui nessuno sa della
sua esistenza... non è anche questo morire? Molte di queste citazioni, poi, sono
gustosamente rimaneggiate. Quando per esempio nel 1969 venne portato sullo
schermo il romanzo MacKenna’s Gold di Heck Wilson Allen con il celebre film
L’oro di Mackenna di John Lee Thompson, viene aggiunto un prologo in realtà
assente nel romanzo. «C’è una vecchia storiella che raccontano gli Apache, di un
uomo che cavalcava per il deserto e incontrò un avvoltoio (quelli che chiamano
corvi tacchini, qui nell’Arizona) appollaiato su una roccia. Dice l’uomo: «Ehi,
corvo tacchino, cosa ci fai qui? T’ho visto che volavi sopra Hadleyburg e per
non incontrarti ho cambiato strada e sono venuto qui”. E l’avvoltoio gli fa: “Ma
guarda che strano: ci sono passato per caso là ad Hadleyburg. Io stavo venendo
qui... ad aspettarti”.»
La storia di sapore arabo diventa leggenda Apache!
L’operazione contagia lo scrittore Stephen Gunn (pseudonimo dell’italianissimo
Stefano Di Marino) il quale in apertura del suo romanzo Il grande colpo del
Marsigliese (1997) scrive: «Sulla via per Nogales un cavaliere vede un
avvoltoio. Allora cambia strada e compie un largo giro sino al Canyon del
Muerto. Qui ritrova l’avvoltoio e gli domanda: “Cosa ci fai qui? Ti ho visto
sulla strada per Nogales”... “Strano” risponde l’avvoltoio “perché io ero
diretto proprio qui. Ad aspettarti”.» Il testo viene presentato come “Un vecchio
detto tarahumara”, in una deliziosa operazione di doppia citazione.
È mai esistita una favola orientale che trattasse della Morte inevitabile nei
termini a noi noti? Malgrado non esistano prove al di là del Talmud Babilonese,
sicuramente sarà esistita e magari esiste ancora. Quel che è certo è che in
Occidente, dal Novecento in poi, qualsiasi vera favola orientale è stata
soppiantata dall’Appuntamento a Samarra di John O’Hara, che si rifà al
britannico Maugham che a sua volta si rifà al francese Cocteau. A chi si rifà
quest’ultimo? Non lo sappiamo. Tutto ciò che sappiamo è che la storia della
Morte inevitabile ha contagiato generazioni di scrittori e lettori, rimanendo
viva e fertile dopo quasi due millenni di vita.
Chiudiamo con un intervento di Enzo Tiezzi che, nel suo Tempi storici, tempi
biologici (2001) così ci spiega: «La nostra cultura economica e sociale è tutta
interna alla logica della ricerca del cavallo per arrivare a Samarra, della
tecnologia per risolvere un problema di oggi, senza preoccuparsi se la
risoluzione di quel problema va nella direzione di aumentare i problemi per
l’umanità.»
Saggi di Lucius Etruscus
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